TRE ANNI DOPO, IL DIARIO DI EVA

Vale la pena gironzolare di notte per un paesello distrutto dal terremoto. Respirare il suo silenzio di attesa. L’attesa di un miracolo che potrebbe non arrivare mai. Incantarsi davanti ad un portone di un’antica cantina, sbilenco e consumato dal vento e dalle stagioni. Sbirciare dentro il buco della serratura, e vedere non una volta a botte, ma un cielo stellato. Incrociare lo sguardo con una facciata disfatta e scollacciata, dalle tapparelle sbilenche, piegata e solcata da profonde crepe, che si specchia in una pozzanghera, approfittando di un guizzo di luce concesso dai fari di una camionetta dei militari in ronda. . Tra le pietre precipitate a terra e i panni ancora appesi alle finestre, le erbe selvatiche che riconquistano i vicoli, si possono trovare in ordine sparso pensieri preziosi sull’abitare.

Questo paese è vuoto. Ovvio, le case sono rotte e crollate. Ma molte erano state abbandonate prima, quando erano intere. E’ un destino comune che riguarda migliaia di paeselli in Italia, lungo gli Appennini e le Alpi, negli entroterra isolati, che tra un decennio saranno completamente spopolati.

Questo rischia di essere il destino anche di Pescomaggiore, a pochi chilometri dall’Aquila.

 

 

Il cantiere dell’ecovillaggio Eva parte da questa consapevolezza. Dall’idea che questi nostri paesi in via di estinzione ed eutanasia, per tornare a recitare un ruolo nel mondo, hanno bisogno di fantasia, di idee che smuovono qualcosa nel cuore e nell’immaginazione, e non solo di polverosi musei del tempo che fu, con contadini impagliati e zappe in bacheca, non solo di alberghi diffusi dove la cultura materiale diventa arredo rural-chic e location finto-pezzente, non solo di outlet di prodotti tipici che uscendo dalla loro naturale nicchia per inseguire il mercato e l’accresciuta domanda, spesso si edulcorano e diventano accessibili solo alle tasche facoltose. Di fabbrichette senza futuro come quelle che furono appioppate ai terremotati dell’Irpinia dai capibastone locali e dagli industriali del nord emigrati a sud solo per intascarsi i principeschi incentivi post-sismici.

Sono passati tre anni da quella domenica notte. Due anni e mezzo da quando è iniziato un piccolo sogno che va pian piano materializzandosi.

Le case di paglia sono calde e accoglienti. Ci abitano nove persone, presto saranno dieci e forse anche di più. Metà terremotati residenti a Pescomaggiore, metà di altri paesi del cratere. Dai trenta agli ottantanni. Una comunità nata un pò per caso, dopo quella grande centrifuga di destini e moduli provvisori di vita che è stato il post-terremoto.

Ci accomuna poi l’avere redditi bassi e incerti. E lecito chiedersi se la vera emergenza post-sismica sia stata quella abitativa, oppure quella di sopravvivere in un mercato del lavoro che è una piscina attraversata da squali e caimani. Se la spinta a venire qui non sia stato un emigrare con lentezza, mentre giù a valle vistose crepe annunciano il crollo imminente della volta celeste dell’economia dei profitti, dei banchieri, del gozzoviglio per pochi e dei sacrifici e della sofferenza per tutti gli altri.

Le casette, hanno ragione gli eco-esperti e i guru della bioedilizia passati per il cantiere, per carità potevano essere fatte ancora meglio. ”Terra cruda ci voleva!”, ”Ma che è stò ferro che crea magnetismi fatali al Karma!”, ”E i tetti d’erba? Perchè quegli orribili bandoni di latta?”, queste alcune delle critiche. I materiali usati raccontano però del fatto che chi ora ci abita aveva una comprensibile fretta di avere un tetto sulla testa, aveva l’obbligo di rispettare anche discutibili normative vigenti, e aveva soprattutto pochi quattrini in tasca. Queste case però alla fine sono costate quanto gli addobbi floreali, le penne e i posaceneri per i due giorni dello sfarzoso quanto frivolo G8 aquilano. E vuoi mettere la soddisfazione…

La loro irregolarità e le rifiniture non seriali, raccontano delle centinaia di mani, molte inesperte, che le hanno costruite. Ognuno ha lasciato la sua traccia, materiale e umana, che ha fatto di questo cantiere uno dei luoghi più vivi e significanti del cratere sismico. Ecco perché, a viverci dentro, queste casette sembrano cose vive, che respirano, come fossero una seconda pelle. Autocostruirle è stato un esercizio di acquisizione di memoria perduta. Forse un’espiazione. A L’Aquila avevamo dimenticato di vivere in una terra ad altissimo rischio sismico, con interi quartieri costruiti sopra le faglie e in suoli che amplificano le onde telluriche.

Ci eravamo dimenticati l’antica saggezza che consente di interpretare i segni di avvertimento che sempre la natura lancia prima di ogni catastrofe. Ci eravamo disinteressati a chi e come aveva costruito la nostra casa, con quali materiali, con quali precauzioni. Per anni avevamo gettato in qualche angolo dimenticato della nostra memoria, come inutili cianfrusaglie, parole e saperi che ci avrebbero consentito di prendere coscienza del vivere nel posto giusto, ma nel modo sbagliato. Eravamo invece pronti a censurare ogni parola e ogni pensiero profeta di sventura, che minacciava la nostra instabile serenità, il nostro irresponsabile benessere.

Nello stagno di ciottoli della fitodepurazione cresce lentamente la phragmites australis, e proliferano colonie di microorganismi coprofili, che tramuteranno insieme al’oosigenazione una fogna in acqua buona per l’irrigazione. Potrebbe essere un’idea economicissima per tanti piccoli borghi del cratere da ricostruire.

Man mano, senza fretta, prendono forma l’orto sinergico e l’ orto botanico, i terrazzamenti e lettiere coltivabili in ogni spazio libero dell’ecovilaggio, per un arredo urbano commestibile, irrigato dall’acqua raccolta dai tetti. Da rendere fertili con il compost e la paglia, materiale edile di risulta, e i consigli di chi come il signor Gregorio, ottantenne dalle belle speranze, ha la cura di venire a dirci di cogliere subito i pomodori anche verdi e stiparli in una cassetta, perchè la notte a venire avrebbe gelato. E per ricordare inoltre che era quasi l’ora di preparare la terra per seminare le fave, le cipolle e l’aglio. Ricostruire è anche ritessere i saperi materiali e le tecniche della sopravvivenza tra i giovani e i vecchi esemplari della specie umana.

Tutt’intorno in terre prima incolte e pietrose stato riseminato il farro, il grano solina, la rara patata turchesa, e il prezioso zafferano. Si sperimentano altre colture e si fa scorta di semenza di grano saraceno, cece rosso pizzuto, fagiolo zolfino, pisello robiglio, spinacio locale. Infine un frutteto, piazzato in segno di rispettoso dissenso davanti alla cava che crea lavoro e sviluppo mangiandosi però le montagne. Mela tinella, zitella e renetta. Limoncella, gelata e mula. Pera spina, coscia invernale, spadona, ruzza e a campana. Prugna viola e gialla, ciliegio ferrovia, susino goccia d’oro. Sono solo alcuni dei forse infiniti predicati della biodiversità.

Tutto questo è stato realizzato mentre nel cratere sismico ci sono migliaia di pratiche per la ricostruzione delle case E fuori dai i centri storici in attesa di approvazione da parte di una kafkiana ricostruzione. E per quanto riguarda il grosso della ricostruzione post-sismica, quella che dovrà interessare il centro storico dell’Aquila e di oltre 50 borghi terremotati Pescomaggiore compreso, con il loro considerevole patrimonio artistico e storico, si è in attesa dell’approvazione definitiva degli oramai mitici Piani di ricostruzione. E che poi arrivino i soldi, tanti soldi, e non è adetto che ci siano. Tempi che rischiano di essere troppo lunghi per chi intanto medita di andarsene da un territorio in cui, i dati sono dell’autunno 2011, le ore di cassa integrazione sono raddoppiate, i nuovi disoccupati sono 7mila, centinaia sono le attività che non hanno riaperto dopo il sisma, è crollato il reddito dei precari e di molte partite Iva, duemila solo a L’Aquila sono i nuovi poveri, aumenta l’alcolismo, i litigi abusi e separazioni in famiglia, è quasi raddoppiato il consumo di psicofarmaci.

Creare magneti di energia e confermare con la pratica quotidiana, che nonostante tutto ci sono buone ragioni per restare e resistere. Solo questo era ed è dunque in nostro potere. Inseguire i sogni per radicarsi. Nella consapevolezza regalataci da Italo Calvino, che è solo l’umore di chi la guarda che dà a Zemude la sua forma e che inoltre non esistono città che non siano provvisorie, sospese nel vuoto, trattenute solo da una fragile ragnatela di emozioni.

Ciò significa, tanto per cominciare, ricostruire un abitare nell’ecovillaggio e nella comunità provvisoria e cangiante che orbita intorno ad esso. Nella consapevolezza che con le balle di paglia ci si può anche fare una una galera, e che una decrescita può essere anche infelice. La sfida, non più edilizia, ma a questo punto interiore e culturale, sarà quella di creare una comunità resiliente, che offra rifugio all’intimità e alla solitudine, e nello stesso tempo aperta, ospitale e organizzata. Una comunità che non soffochi l’io nel noi, e che non disgreghi il noi a causa dell’arroccamento nell’io.

Bisognerà coltivare dunque e praticare la lealtà, la sincerità, la spontanea predisposizione al mutuo aiuto, la capacità di ascolto e comprensione, coltivare il convivio e lo spirito buontempone che non ci fa prendere le cose troppo sul serio, e rende piacevole e divertente lo stare insieme.

Acquisire la consapevolezza che gli ideali possono rivelare qualcosa di importante su ciò che vorremmo essere, ma i compromessi ci rivelano chi effettivamente siamo e quello che concretamente siamo stati capaci di costruire. Comprendere che comunque bisogna rimboccarsi le maniche e superare una culturale idiosincrasia nei confronti del lavoro manuale, nell’era degli anacoreti digitali. Sarà pure una casualità etimologica, ma la parola “fatica” viene dal latino fatis, che significa anche crepa, fenditura.

Ciò che contribuisce e facilita la tenuta del gruppo è anche l’essere tutti impegnati finora convintamente in un sogno da realizzare, anche se magari non coincide del tutto con quello degli altri. Eva rimane un cantiere aperto e a tempo indeterminato e questo coagula le energie e i talenti.

La vita e la gestione dell’ecovillaggio viene per ora regolata in modo spontaneo e informale. Le decisioni di particolare importanza vengono comunque prese in occasione delle riunioni settimanali dell’associazione di promozione sociale Misa, dal nome di una giovanissima strega bruciata viva nel seicento in cima al castello di Pescomaggiore. Ad essa aderiscono oltre agli abitanti di Eva e del paese tutti coloro che credono possibile la rinascita del paese e del territorio, attraverso soprattutto la creazione di lavoro “verde”, anche come reddito complementare, nel territorio di Pescomaggiore.

L’altra grande scommessa è ricostruire l’abitare in paese, e porre almeno le basi di una rinascita economica e sociale, che non può attendere l’apertura dei cantieri. Ciò significa riaffermare contro il metrocubismo dominante il primato del contenuto sul contenitore, il che equivale anche a porre le premesse di un nuovo umanesimo di montagna. Restituire una casa alle parole che hanno un senso, come quelle di Cesare Pavese: ‘Un paese ci vuole non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta.

Un punto di svolta in tale direzione è stata la ristrutturazione del forno comunitario di Pescomaggiore, che è già diventato un luogo, l’unico in paese di aggregazione e incontro. Il forno poi è di tutti e di nessuno, è un bene comune, che darà l’opportunità di completare quel ciclo magico che parte dalla terra e dal grano, diventa farina sotto i giri lenti e ipnotici delle macine in pietra dei mulini lungo l’ Aterno, anch’essi da ricostruire e restituire al mondo, e diventa appunto pane nel forno, ed anche paglia, la materia prima di scarto che ci ha permesso di costruire case calde e confortevoli per i lunghi inverni di montagna.

E in pieno svolgimento poi, sempre su iniziativa di Misa, e con risultati finora estremamente positivi, il progetto di pianificazione partecipata “Statuto dei Luoghi”.

Consiste sostanzialmente in una serie di ricognizioni, questionari e incontri che portino i paesani ad esprimere in maniera il più possibile condivisa i valori, i problemi, le potenzialità e le necessità del luogo in cui abitano. L’obiettivo concreto è delineare un insieme di linee guida condivise che sarà alla base di un documento che conterrà proposte normative tecniche-attuative direttamente recepibili dalle Pubbliche Amministrazioni e relative descrizioni in linguaggio non tecnico per il pubblico non specializzato. Il documento potrà indirizzare l’azione dei decisori pubblici che hanno in mano le sorti e (i soldi) della ricostruzione, inoltre potrà innescare processi di autoregolamentazione condivisa e di iniziativa diretta da parte della cittadinanza, che potrà farsi carico attivamente della manutenzione e dello sviluppo del territorio e dei suoi beni.

Le riunioni sono partecipate. Molto ha inciso la grande esposizione mediatica del progetto Eva, in particolare in virtù della scelta originale della paglia come materia prima costruttiva. Gli abitanti con seconde case inagibili che tornavano nei dine settimana, e i paesani in ‘’esilio’’hanno trovato motivazioni in più per scommettere sulla rinascita del loro paese. E’ nato un bed&breakfast gestito da un abitante del paese molto vicino al progetto. Ci sono persone di fuori, i ‘’forestieri’’ come li chiamano su queste montagne, comprese giovani coppie con bambini piccoli, arrivate qui come volontari o visitatori che sarebbero disposte a trasferirsi a Pescomaggiore, una vota che le case inagibili e già disabitate prima del sisma, saranno finalmente.

Contemporaneamente procede il progetto di storia orale ”Ricordare, raccontare, sperare”, un’indagine sulla memoria storica del paese, sull’evento del sisma e le sue numerose implicazioni sociali e su quale, se ce ne fosse una, visione del futuro si possa immaginare collettivamente per uscire dallo spopolamento e dalla desolazione dell’abbandono.

”Nelle difficoltà bisogna essere uniti, l’unione fa la forza, altrimenti il paese non lo ricostruiamo, o lo faremo male e troppo tardi”. ”Il lavoro dei campi non veniva pagato, c’era una vita comunitaria, oggi a me domani a te, ti ridavamo le giornate, come una paga del tempo”. ”Pescomaggiore tonno tonno, quattro case e cinque con un forno”, ”Il profumo di pane che ogni settimana si diffondeva per tutto il paese, ti faceva sentire di essere in un piccolo paradiso”.

In queste parole recuperate sotto le macerie dell’oblio e dello spaesamento, una chiara indicazione della direzione del nostro futuro cammino. (Gelsomino Balla)

One Comment

  1. E’ come se il mondo si stesse svegliando da un brutto sogno, l’aver concentrato tutte le energie per raggiungere un modello di benessere disumano. Ci è stato fatto credere di progredire, invece ci siamo solo imbarbariti. La frase semplice e spontanea di una signora di Pescomaggiore: “eravamo poveri, ma felici” la sento sempre più spesso e mi ha convinto che il paradiso può esistere, sta a noi costruircelo.

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